GRAND JETÉ

GRAND JETÉ è un progetto coreografico di Silvia Gribaudi realizzato con la MM Contemporary Dance Company diretta da Michele Merola. Sull’idea del “grand jeté”, la grande spaccata in aria che viene definita come uno dei passi più impressionanti e virtuosi dell’arte del balletto, il nuovo progetto coreografico di Silvia Gribaudi esplora la fine come fonte di nuovi inizi. Un “grand jeté”, un istante per sfuggire alla gravità, è un passo di transizione che consiste in una momentanea sospensione e in un “lancio” nell’aria. Esplorando il significato metaforico di questo passo virtuoso nella vita di tutti i giorni, GRAND JETÉ diventa un’occasione per ribellarsi e sfidare l’irreversibilità di qualsiasi tipo di finale. Quanto sforzo richiede questo decollo verso l’ignoto e quali prospettive può aprire un atterraggio? Alla luce di questo salto di energia esplosiva, come possiamo affrontare il fallimento come risorsa per decollare di nuovo? Siete pronti/e a fare il vostro unico e originale “grand jeté”?

MOBY DICK ALLA PROVA

Achab, come Kurtz in Cuore di tenebra, per devastare la natura, soggioga i suoi simili e ne fa strumento del suo odio, con estrema facilità: compito agevole, dopotutto… La mia unica ruota dentata sa mettere in moto i loro diversi meccanismi… ed eccoli tutti in moto… Vitalismo rapace, prepotentemente – ma non esclusivamente – occidentale, che rappresenta quella parte d’umanità che ci porta al disastro, al gorgo mortale che inghiotte la Pequod. Siamo alla sesta estinzione di massa, siamo al riscaldamento globale, siamo sull’orlo del baratro e continuiamo a correre. Generando odiatori meno mitici ma altrettanto ferali di Achab. Diciamolo: Moby-Dick parla di noi, oggi. Ne parla come solo l’arte sa fare. Cogliendo il respiro dei secoli – tra passato e futuro – nel respiro di ogni istante della nostra vita. Elio De Capitani Orson Welles portò al debutto il suo testo il 16 giugno 1955, al Duke of York’s Theatre di Londra. Lo mise in scena in un palco praticamente vuoto, scegliendo di non dare al pubblico né mare, né balene, né navi. Solo una compagnia di attori e sé stesso in quattro ruoli, Achab compreso. E vinse la sfida di portare in teatro l’oceanico romanzo di Melville gettando un ponte tra la tragedia di Re Lear e Moby Dick: l’ostinazione del re – che la vita, atroce maestra, infine redimerà – si rispecchia in quella irredimibile, fino all’ultimo istante, dell’oscuro e tormentato capitano del Pequod.Splendidamente tradotto per l’Elfo dalla poetessa Cristina Viti, il copione di Welles restituisce con forza d’immagini la prosa del romanzo. «Il testo di Welles, inedito in Italia, è un esperimento molteplice, sottolinea il regista Elio De Capitani. Blank verse shakespeariano, una sintesi estrema del romanzo, personaggi bellissimi, restituiti in modo magistrale e parti cantate. Noi abbiamo realizzato questo spettacolo ‘totale’, con in più la gioia di una sfida finale impossibile: l’apparizione del capodoglio. E con un semplice trucco teatrale siamo riusciti a crearla in scena».

HOKUSPOKUS

All’inizio di questo progetto c’era il concetto di “creazione” e le tante storie “dell’inizio del tutto” che le persone si raccontano da sempre. A questo si è aggiunta la semplice domanda: come potrebbe essere una serata teatrale che inizia con l’inizio del tutto? E soprattutto: come finisce? Ma torniamo all’inizio. Le tenebre sono diventate luce, il soffio divino è stato inspirato e i primi amanti si trovano nel giardino paradisiaco. Osano muovere i primi passi insieme come coppia, cercano riparo dalla natura e, grazie a Dio, trovano un appartamento a prezzi accessibili. Il destino trascina presto la giovane coppia sulle montagne russe della vita. Con ogni figlio, le forze centrifughe crescono e minacciano di distruggere la famiglia. FamilieFlöz amplia la sua cassetta degli attrezzi per questo spettacolo e, oltre alle note figure in maschera, mostra anche gli attori dietro di esse. Suonando musica, cantando, filmando, parlando o facendo rumori, l’ensemble crea il mondo delle maschere davanti agli occhi del pubblico. Si alternano nel prestare i loro corpi alle figure e nel prendere in mano il loro destino. Creatore e creazione si incontrano finché la storia non si racconta da sola. Il titolo ‘Hokuspokus’ gioca con la presunta origine della parola, una corruzione popolare del latino “Hoc est enim corpus meum” – “Questo è il mio corpo”. Oppure si tratta solo di un gioco di prestigio. HOKUSPOKUS ci parla del teatro come di una scatola delle meraviglie che visitiamo per celebrare il gioco della menzogna e della verità. “In Hokuspokus tutto è finto, ma niente è falso. Niente è più reale di queste maschere. Familie Flöz dà vita a un’illusione metateatrale che è poetica e innovativa, atavica ed esperienziale, fisica e magica allo stesso tempo. Un inno al trasformismo, una celebrazione della musica, del colore e del costume. Uno spettacolo che merita la standing ovation del pubblico”. (F. Chiaro – Persinsala)

ASPETTANDO GODOT

Il regista greco Theodoros Terzopoulos, fra i grandi maestri della ricerca teatrale, si confronta con Aspettando Godot del drammaturgo Samuel Beckett, una delle opere più celebri del “teatro dell’assurdo”, la cui vicenda ruota attorno a un dialogo sterile tra due personaggi sospesi in una situazione d’attesa. Ambientata nel futuro, la scena presenta un mondo ferito e in rovina, aprendosi a un interrogativo: quali sono le condizioni minime per una vita che valga la pena di essere vissuta? «I personaggi beckettiani – commenta il regista – si muovono in una zona grigia, in un paesaggio del nulla, quello dell’annientamento dei valori umani. […] Il sarcasmo alla ricerca di una fine che non ha fine è l’espressione dominante dei loro esercizi di sopravvivenza. […] Ogni nuovo inizio è la definizione di una nuova fine. Pessimismo estremo. I personaggi tacciono aspettando la rivelazione dell’indicibile, che non si rivela mai. Alcune domande, che riguardano la natura umana e il futuro, forse avranno risposte, la maggior parte però no. Forse alcune arriveranno dagli stessi spettatori. L’arte del teatro esiste e persiste proprio in virtù delle domande senza risposta».

PERFETTI SCONOSCIUTI

Una brillante commedia sull’amicizia, sull’amore e sul tradimento, che porterà quattro coppie di amici a confrontarsi e a scoprire di essere “perfetti sconosciuti”. Ognunodi noi ha tre vite: una pubblica, una privata ed una segreta.  Un tempo quella segreta era ben protetta nell’archivio della nostra memoria, oggi nelle nostre sim.Cosa succederebbe se quella minuscola schedina si mettesse a parlare? Durante una cena, un gruppo di amici decide di fare un gioco della verità mettendo i propri cellulari sul tavolo, condividendo tra loro messaggi e telefonate. Metteranno così a conoscenza l’un l’altro i propri segreti più profondi…

IL PRANZO DI BABETTE

Alla fine dell’Ottocento in un piccolo villaggio della Danimarca vivono due anziane sorelle, Martina e Philippa. Figlie di un pastore protestante, decano e guida spirituale del posto, dopo la sua morte hanno ereditato la direzione della locale comunità religiosa respingendo le proposte di matrimonio e continuando a vivere una vita semplice e frugale, per aiutare i compaesani in difficoltà. Un giorno si presenta alla loro porta, stremata, la parigina Babette Hersan. Accolta dalle anziane signorine, si guadagna l’ospitalità facendo da governante e contribuendo all’attività di beneficenza. Una storia raccontata in una casa di fantasmi. Tutto è finito molto tempo fa, eppure il ricordo è vivissimo, come una fiamma di candela che scalda anche le notti più gelide. La storia di un “cupo mal di denti” che l’arte di una donna, venuta da lontano, scioglie miracolosamente. Un fiordo norvegese, una comunità religiosa ossessionata dal senso del peccato e dalla penitenza, la fuga precipitosa di tre donne: una dall’amore, la seconda dalla lirica, la terza dalla Comune di Parigi. Tutte nella stessa casa, secondo i capricci del destino. Il racconto capolavoro di Karen Blixen, reso famoso da un film di Gabriel Axel (premio Oscar nel 1988) trasposto per il teatro, alla ricerca della purezza cristallina delle emozioni potenti e livide create dall’immenso talento della grande scrittrice danese: il miracolo e l’invidia, la paura dei sentimenti, il batticuore, gli anni che passano, le occasioni perdute, i rimpianti. E, sopra a tutto, una riflessione sulla generosità dell’arte, che cambia la vita.

CECITÀ

Incombe sulla terra una tragedia immane che rovescia il modo di stare. Un virus sconosciuto agisce togliendo la vista alle persone. Comunità e individui perdono apocalitticamente quello che credevano di possedere e vedere. Tutto è improvvisamente immerso in un biancore luminoso che assorbe come per divorare non solo i colori ma le cose stesse e gli esseri, rendendoli così, doppiamente invisibili. Quel mare di latte nel quale sono caduti gli abitanti del mondo, li rende sgomenti e impauriti, vulnerabili agli odori e alle esalazioni, li costringe ad apprezzare il pianto e le lacrime, le impronte e il tocco della mano. In questo stato di eccezione un piccolo gruppo si allea per condividere le vie di fuga e il nuovo mondo. Tra di loro una donna non ha perso la vista, ma dovrà rimodulare ogni dettaglio del suo comportamento per coesistere con la vista, per domandarsi a cosa serve vedere. In questo poema della morte e della sofferenza, il corpo avanza con tutta la sua biologia e le emozioni emergono da gesti nuovi, ritrovati, reimparati. Gli interpreti, come testimoni di questo evento, si ritrovano a toccare lo spazio, a essere toccati dai luoghi, ad ascoltare le tracce del suolo e le onde sonore che vagano nell’aria. La ricerca drammaturgica procede avviando una ricostruzione del corpo che dalla cecità si muove verso una condizione di novità che obbliga a vivere le cose diversamente e ad elaborare strategie di sopravvivenza -o più semplicemente- di rieducazione allo sguardo. Con Cecità si esplora quello stato di mancanza che risveglia la vita delle cose facendole sbalzare fuori dalla quotidianità, ricercando un’essenza che ricorda che prima di tutto siamo natura, una natura che reagisce a noi, capace di distruggere noi.

SAMUSÀ

“Prendete posto altro giro altra corsa” Dopo il grande successo dello spettacolo Performance del 2015 e anni particolarmente intensiche l’hanno vista protagonista in tv di uno show e una serie televisiva tutti suoi, oltre allaconduzione del Festival di Sanremo e il doppiaggio diMorticianel cartone animato La FamigliaAddams, Virginia Raffaele torna al suo primo amore, il teatro, e lo fa con uno spettacolocompletamente nuovo dal titoloSamusà. Il racconto diSamusàsi nutre dei ricordi di Virginia e diquelmondo fantastico in cui è ambientata la sua infanzia reale: il luna park. Da lì si sviluppa inquel modo tutto della Raffaele di divertire ed emozionare, stupire e performare, commuovere efar ridere a crepapelle.“Sono nata e cresciuta dentro un luna park, facevo i compiti sulla nave pirata, cenavo caricando ifucili, il primo bacio l’ho dato dietro il bruco mela. Poi il parco ha chiuso, le giostre sono scappatee adesso sono ovunque: le attrazioni sono io e siete voi. Tutto quello che siamo diventati stupiscequanto un giro sulle montagne russe e confonde più di una passeggiata tra gli specchideformanti”.Adarricchire l’impianto scenico originale, alcuni degli schizzi dipinti dalla stessa Virginia.La regia si avvale della grande firma di Federico Tiezzi.

LA SAGRA DELLA PRIMAVERA

Una creazione che incarna energie primordiali, viscerali e sublimazioni pagane attraverso una scrittura coreografica corale, ridisegnata sui corpi dei danzatori dell’Eko Dance Project, che si lascia guidare dal modus operandi del genio Igor Stravinsky, ossia colui che non inventa e non crea bensì svela e rivela delle realtà altre, occulte, che esistono all’infuori di sé e che si palesano come durante un atto di rabdomanzia. Il respiro della Sagra della Primavera di Roberta Ferrara si apre alla collaborazione con Pompea Santoro, già danzatrice di Mats Ek e sua assistente, che ne riveste in questa creazione il ruolo di dramaturg  e alla collaborazione con il compositore Benedetto Boccuzzi, che con l’elettronica attraversa la partitura Stravinskiana commentandola e trasponendola in un nuovo spazio aumentato e multidimensionale.

ANNA KARENINA

Uno dei romanzi più importanti della storia della letteratura viene portato in scena in un periodo assai particolare del rapporto tra la nostra cultura e quella russa. È una scelta di politica culturale quella di distinguere tra il dissenso politico sull’azione dello stato russo e il consenso entusiastico che la cultura europea occidentale deve alla cultura e alla letteratura russa. Naturalmente non si può pretendere di trasferire tutte le complessità psicologiche e narrative di un capolavoro come Anna Karenina in uno spettacolo teatrale. La nostra scelta sarà quella di concentrarsi sulle vicende che ruotano intorno alla protagonista, potendo contare sul grande talento di Galatea Ranzi, e sui meccanismi che stanno dietro alle tre coppie che sono tre metafore di tre destini. Quello maledetto ma pieno di passione di Anna, Vronjskij e Karenin, quello amaro e fallimentare di Stiva e Dolli, e quello invece sereno e benedetto di Levin e Kitty. Si punta a raccontare uno spicchio del romanzo in uno spettacolo compatto di non più di 90 min con una scenografia essenziale basata su proiezioni, seguendo un meccanismo più volte usato da De Fusco coi suoi abituali collaboratori.